Enrico Crispolti: Quadriennale romana
Corporeità spaziale di memoria del tempo
Da quando mi sono capitate occasioni diverse per incontrarne delle proposizioni (e da ultimo, con forte risalto qualitativo ai vertici della vivace tornata napoletana d’”anteprima” della Quadriennale romana, in Palazzo Reale, ma altrimenti inizialmente già da poco oltre metà degli anni Novanta), del lavoro di Radi mi ha attratto e incuriosito la misura di un distacco, sempre più consistentemente annunciato, da ogni condizionamento contingente d’ordine attivistico-consumistico coattivo, a favore invece d’una dilatazione memoriale che apra ad una differente dimensione temporale e in certa misura persino spaziale. E di fronte agli svolgimenti più recenti della sua ricerca, fra protrusioni plastiche del 2001 e ’02 (come se ne videro proprio nel 2002, a Roma, nel Premio Giovani. Scultura, nella personale nell’Accademia Nazionale di San Luca, o nell’installazione nella Galleria Inner Space Multimedia, a Poznan) e diafane corporeità, del 2003 (come viste appunto a Napoli), mi sembra si ponga il problema non soltanto di riconoscere la qualità d’una tale opzione certo assai personale, ma anche di dedurne qualche indicazione di sostanza non perciò necessariamente altrettanto di misura solitaria sulla scena attuale. Che è proprio quella d’una pertinenza evidente del suo lavoro ad un ricorrente modo d’attestarsi in posizione alternativa e oppositoria ai contingentamenti immaginativi e sopratutto memoriali prospettati dall’ubiquitarietà d’effimero tipica della pressione consumistica che ci avvolge e nel vissuto quotidianamente in senso globalistico insidia. Un modo d’essere nel proprio presente che nella sua consistenza attuale si propone indubbiamente come nuovo. Non soltanto a fronte, certo oppositoriamente, d’una adesione consenziente al proprio presente del tutto colto nel suo attivismo: come in certa misura accaduto dal dinamismo di compresenti simultaneità percepite dai futuristi all’iconismo comunicativo mitopoietico “pop”, e persino forse in deduzioni digitali di nuove compenetrazioni d’immagine. Ma direi anche a fronte d’ una pertinenza al proprio presente che qualche decennio fa ho indicato come esercitata “per contraddizione”, esattamente per contrapposizione d’uno spessore d’altrove immaginativo rivelatorio, ludico, ecc.: come accaduto da designazioni di clima d’area simbolista a intuizioni “metafisiche” (dechirichiane), a molteplici proposizioni surrealiste, e ad una profonda tradizione che ne è conseguita (per esempio nuovamente in aspetti neoespressionisti). Un contrapporsi all’esteriorità vitalistica del proprio presente per affermare di questo una dimensione interiore, alternativa, visionariamente prospettiva. Dunque nel proprio presente riconoscere d’essere appunto soltanto “per contraddizione”, in formulazioni immaginative che aprano su alternativi itinerari e profondità, baratri immaginativi. Fra le due prospettive, è la distanza che nel confronto con il proprio tempo corre, per esempio, fra un Boccioni e un Ernst. Mi sembra tuttavia che in tempi recenti si vada profilando anche un altro modo di contrapposizione al volto attivistico, iconico, segnico-gestuale, comportamentale, del proprio tempo: e non più “per contraddizione” ma, direi, precisamente, “per sottrazione”. Nel senso esattamente di contrapporsi ad una contingenza (quale cogente circostanza percettivo-emotiva), assumendo un comportamento immaginativo che immetta in una dimensione di durata espansiva anziché in quella di una circostanziata condizione d’effimero. E durata vuol dire sottrazione ad una spazialità che contingenti la temporalità appunto in occasioni d’effimero, che insomma si riduca nell’attimalità effimera; a favore invece d’una temporalità riconquistata come dilatazione anche spaziale, nella prospettiva sconfinata della memoria. Se infatti la partecipazione al proprio tempo che dico “per contraddizione” comporta una diversione, uno spiazzamento in un’alterità temporale quanto di spazio d’orizzonte appunto visionario, d’introspezione analitica, di sondaggio di latitudini d’inconscio individuale altrettanto che collettivo, di scandaglio d’archetipi, quella che dico invece “per sottrazione”, entro la temporalità contingente del presente effimero vitalisticamente e consumisticamente condizionato, entro dunque la sua fugacità, l’evidenza totale dell’imminenza delle circostanze del proprio proporsi massificato, massmedialmente condizionato (estremo rovescio ormai - dunque da leggersi postindustrialmente e postmodernamente in negativo - d’un processo iniziato in positivo nel 1 fideismo della progressività modernistica industriale, d’inizio XX secolo), comporta, la partecipazione “per sottrazione”, l’introduzione d’una diversa dilatazione temporale attraverso l’insinuarsi appunto d’una spazialità memoriale. Non tuttavia come diversione prospettica, come spiazzamento temporale e spaziale dalla contingenza del presente, bensì come lettura di questa non in quanto occasionalità di figure, di simboli, di forme, d’eventi, ma in quanto condizione d’una auroralità percettiva, in immediatezza di confronto riportato ad una originaria consistenza al di là dunque delle contingenze effimere, attraverso queste e tuttavia entro queste. Rappresenta forse attualmente la novità più significativa del confrontarsi con il nostro tempo, attraverso strumenti di matrice plastico-pittorica pur al massimo problematizzati. Per fare un esempio: è questo, da molti anni, il senso del lavoro pittorico di un Ignazio Gadaleta, che a Roma opera in un addensamento di virtualità percettivo-evocative intrinseche sia al tessuto pittorico, sia alla sua capacità d’irradianza e dunque d’implicazione espansiva entro la situazione spaziale in cui la contingenza percettivo-emotiva nella sua estrema acutezza si configura (non a caso ultimamente operando direttamente a dimensione ambientale). Ma un altro significativo esempio, sul piano più propriamente plastico, sempre a Roma, lo offre il lavoro di Paolo Radi, sopratutto il più recente, fra aura delle sue estroflesse proposizioni plastiche e ora fluttuazioni di queste in una spazialità diafana e immaginativamente incommensurabile. Ambedue (né sono i soli) operano entro il proprio presente, scavalcandone la contingenza, non tuttavia in modi di una prospettiva di fuga, ma anzi di un ribaltamento prospettico in ragione di un’immediatezza percettiva che quella pellicola di contingenza (il volto delle cose, degli atti, le figure, le circostanze comunicative, le intersezioni dinamiche) scavalca. E non in un al di là che equivalga all’indicazione d’un altrove alternativo, ma in una sorta di al di qua appunto d’immediatezza percettiva che dal punto d’incontro tuttavia apra in una dimensione sconfinata di tempo e non contingentata di spazio, sul passo appunto dell’evocazione, della memoria. Non a caso Radi parla di propria tensione immaginativa verso una dimensione di tempo, non esterno, fuggevole: “non al tempo esterno che passa, ma a quello eterno che non ha tempo. Ha solo la dimensione infinita dello spazio”. E sia questo intrinseco, interno alle immagini proposte, fra inerenza circostante le protrusive proposizioni plastiche e fluttuazione diafana, sia invece questo ambientale, circostante, in qualche misura connesso, se non condizionato, è la consistenza espansiva di spazio ad aprire, fisicamente, alla dimensione di un tempo ormai disteso oltre la contingenza del tempo del vissuto, altrettanto che lo spazio lo risulta oltre la contingenza dello spazio del vissuto (del “qui e ora” ambientale, se vogliamo). “Lo spazio della mente ha in comune con lo spazio circostante l’infinità insondabile”. Configurazione dello spazio che si formula come dimensione mentale e si configura come dilatazione di circostanza percettiva, fisica quando imponderabile e forse “insondabile”. Il tempo vi si insinua quale dilatazione memoriale: non memoria di cosa, di persona, di evento, di luogo, ma memoria quale dimensione dell’essere rivolta a dilatare appunto i limiti del presente. Nel lavoro di Radi si esprime così una circolarità fra mente e percezione, fra spazio interiore e condizione di fisicità percettiva. “Richiamo dal profondo, sentire un sogno interno emergere e trasformarsi in percezione viva”. Stabilendosi dunque, nel suo lavoro, un’intima connessione fra “spazio della mente” e “spazio del corpo”, percettività, corporeità analogica. “Avvicinandomi a questi miei ultimi lavori”, scrive inoltre nel catalogo Premio Giovani Accademia Nazionale di San Luca. 2002 – Scultura, II , (De Luca Editori d’Arte, Roma, 2002), “ho la sensazione che mi corrispondano fisicamente, come se ci fossero punti vitali in comune. Riesco a vedermi dentro queste forme e me le sento a pelle, una sensazione di corrispondenza totale. Spazio della mente, spazio del corpo”. Radi appartiene ad una generazione (né certo è la prima la sua) lucidamente consapevole del proprio fare. “Sul vuoto, sullo spazio vuoto, è su questo che si origina il mio lavoro”. E’ infatti la sottrazione endogena dello spazio che determina il vuoto come capienza di tempo di memoria, nella sottrazione alla contingenza di un tempo eterocondizionato. Un vuoto che si qualifica dialetticamente nel rapporto con il pieno dei “rilievi” protrusi, analiticamente strutturati, di diversi anni fa (per esempio 2 3 entro quei tracciati disegnati sul muro o comunque sulle superfici sulle quali erano apposti); come altrimenti nel rapporto con protrusioni di forme “sospese” (sottolineate dai titoli), spazialmente librate, quasi a stabilire un loro affacciarsi da spazialità di memoria appunto spazialmente dilatata, sospesa, incircostanziata, condizione primaria d’attività psichico-mentale, e un loro protendersi quasi a sondare provocativamente quanto silenziosamente, quali forme aliene, lo spazio del nostro vissuto, nel 2002. O che si qualifica dialetticamente ora nel rapporto con forme d’una alterità di percepire, di sentire, di pensare e immaginare. Un vuoto che altrimenti, attualmente, si qualifica dialetticamente in rapporto con le diafane circostanze di fluttuazioni quasi oniricamente distanti di forme. Vuoto ma anche silenzio, conseguenze di sottrazione di spazio della mente allo spazio circostanzialmente definito, di sottrazione di tempo dilatato al tempo contingente. Memoria come misura di tali dilatazione, non mirata se non all’ immensificante scavalcamento della contingenza. Un’aura metafisica non dechirichianamente misteriosofica ma panicamente intrinseca, per analogia direi di respiro, alla corporeità: “Il respiro, comunicazione tra interno ed esterno”. Fra mente e spazio, fra tempo e vuoto, fra corporeità e memoria. Naturalmente il lavoro di Radi qualifica questa propria estrema sottigliezza presentativo-evocativa attraverso un’estrema puntualità nella qualità propositiva dei manufatti. Opera in tensione di forma in quanto partecipe d’una tensione di pensiero e di percezione, di evocazione e di memoria. Opera in estrema economicità della costituzione della forma, in totale devozione suggestivo-evocativa alla determinante dimensione d’una proposizione di scavalcamento d’ogni contingenza temporale quanto spaziale. Di qui il senso di estrema pulizia sia progettuale, sia fattuale dei suoi “rilievi”, e ora dei suoi diafani “schermi”, fra tangibilità ottica delle forme e loro probabilistica fluttuazione spaziale. I primi di per sé, quasi spiritualisticamente, oltre la corporeità strutturale e dunque intrinseca fisicità delle protrusioni plastiche che hanno caratterizzato nel tempo il lavoro di un Bonalumi (non a caso intensamente colorato anziché neutro); e d’altra parte i medesimi oltre l’astrattezza asensibile della “metafisica” tutta iterativa e processuale di un Castellani, in campiture nitidamente monocrome (anziché di sensibilizzazione materiale come accade nel lavoro di Radi). E a ciò s’affida l’originalità e la qualità, inusitate, del suo lavoro, fortemente motivato quanto caparbiamente controllato ed evocativamente decantato.
Enrico Crispolti